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Dirsi “ciao” tra sconosciuti. Se fare fatica crea empatia. Che la politica non vuole.

“Ciao”. Questa semplice parola mi ha sorpreso. Correre lungo l’Adige a Verona e sentirsi dire “ciao” da uno sconosciuto. “Ciao” ho risposto io. E subito mi sono venuti in mente tutti i saluti che ci si scambia quando si va in montagna, quando si corre e si incontrano altri che stanno facendo la stessa cosa. Insomma, pare proprio che correre, arrampicarsi, fare qualcosa di impegnativo assieme, apra canali che altrimenti rimangono chiusi. Cioè diventiamo “empatici”. Perché?

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Già, l’empatia, questa caratteristica di “mettersi nei panni degli altri”, di “sentire le medesime emozioni”. Eppure è qualcosa di innato, di fisiologico. E’ stato un italiano a scoprire il meccanismo nel nostro cervello che crea l’empatia coi i cosiddetti “neuroni specchio”, specchio appunto dell’altro.

“Per questo motivo – approfondisce uno dei tanti articoli sul tema -, quando vediamo qualcuno che cammina trafelato o che cade, possiamo quasi sentire la sua paura o il dolore come se fosse il nostro. Questo trasferimento è innato.”

Quindi, sono le emozioni e la fatica a farci sentire uniti. Caratteristica che abbiamo dalla nascita e che poi riappare solo in determinate circostanze, sempre più rare.

L’economista e guru della green economy Jeremy Rifkin nel suo saggio di quasi 600 pagine “La civiltà dell’empatia” parte da questo concetto semplice: “nasciamo empatici, poi però diventiamo altro, anche se ci sono modi per ritornare a quello stato in cui tutti noi ci sentiamo vicini, empatici appunto, perché questa è la base per salvare il pianeta e noi stessi“.

Diventiamo talmente altro che mentre scrivo “empatici” il correttore di testo di WordPress – il programma che crea questo sito – non riconosce la parola “empatici” e mi suggerisce “ematici”. Devo insegnare anche a lui cosa significa empatia.

C’è un passaggio fondamentale nel libro di Rifkin, raccolto in questa frase. “A un certo punto ci renderemo conto che condividiamo lo stesso pianeta, che siamo tutti coinvolti e che le sofferenze dei nostri vicini, non sono diverse dalle nostre”. Ecco di nuovo il termine “sofferenze”, perché è proprio nelle sofferenze che c’è la chiave della nostra empatia.

Qui mi fermo con la teoria e vado nella pratica, la mia pratica. Quella della corsa appunto. “Ciao” mi dicevano i conoscenti che correvano con me, ma ora ho la prova che “ciao” si dice realmente anche tra sconosciuti. “Io corro e faccio fatica tu corri e fai fatica: significa che senti la mia sofferenza e io sento la tua”. Questo è il significato del “ciao”, capace di andare anche oltre: “se mi faccio male tu mi soccorrerai, se sono in difficoltà tu mi soccorrerai. So di poter contare su ti te perché tu sei me”. Un significato profondo, che si crea dalle sofferenze.

Le stesse che la politica (p minuscola) cerca di far sparire in molte circostanze. Se non c’è sofferenza non c’è empatia. Quindi non si deve far capire la sofferenza di chi fugge dalle guerre e viene da noi. No, “sono persone che vanno in gita, vadano da un’altra parte” dice una certa politica. Oppure non si devono far capire le sofferenze di una certa politica economica da sfascio della Repubblica che con il calo del più del 3% della borsa di ieri ha fatto perdere decine di migliaia di euro di risparmi a persone che li avevano investiti dopo un lavoro di una vita. No, di quelli non si parla. Quindi non si vede la sofferenza, e quindi non c’è empatia. La politica (p minuscola) è salva e ha vinto ancora.

Questa è la chiave: se vedo sofferenza sono disposto a combattere per te, se non la vedo, o qualcuno abilmente la elimina, allora vivrò nella mia non empatia. Chi-se-ne-frega, d’altronde è uno slogan storico, che porta alla memoria periodi bui.

Anche oggi ho ricevuto più d’un “ciao” mentre correvo, e molti ne ho detti. Io cerco l’empatia tutti i giorni in diversi modi per sentirmi uomo. Perché così sono nato. E perché spero in un pianeta migliore per i miei figli, migliore di come l’ho trovato.

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